Alcuni più immediatamente comprensibili ed eclatanti, altri più tortuosi e forse più discreti nel loro concretizzarsi. Di una cosa sono altresì profondamente convinta: che se qualcosa dentro continua a incepparsi, a produrre suoni stonati e disagio questo qualcosa continuerà a farlo anche se mi trasferisco in Nepal, su una spiaggia caraibica e nella più scintillante delle metropoli.

E lo farà anche trasferendosi su un’altra galassia. Anni fa il buon Eugenio Finardi scrisse una canzone dal titolo Extraterrestre. Storia di un umano che, stanco di tutto, lancia segnali nello spazio perché qualcuno se lo venga a prendere e se lo porti lontano. Ma dopo un po’ sente che “le sue paure non se ne sono andate, anzi che semmai sono aumentate dalla solitudine amplificata. E adesso passa la vita a cercare ancora di comunicare con qualcuno che lo possa far tornare“.

Quindi belle, bellissime a volte davvero straordinarie le storie di italiani che altrove hanno trovato ossigeno ai loro sogni e progetti. Ma altrettanto importanti le testimonianze di cambiamenti di una geografia diversa; non solo spaziale ma esistenziale, fatti di pensieri, che prendono altre direzioni. E in questi cambiamenti anche libri, provocatori e controcorrente. A partire dal titolo.

Sarà per questo che la scorsa settimana, trovandomi tra le mani questo testo, ho avuto un sussulto di curiosità: sto parlando dell’ultimo libro di Luca Sofri intitolato niente meno che Un grande paese: l’Italia tra vent’anni e chi la cambierà. Il verbo cambiare, declinato al futuro, mi sembra una bella premessa, oltre che una chiave di lettura meno miope e cinica delle più comuni tendenze al lamento. E leggendolo avverto subito un cambiamento: un richiamo continuo al valore non del nostro passato ma di quello che vorremmo fosse il nostro avvenire. Una sfumatura forse ma di quelle che il mio amato professore di filosofia del liceo avrebbe definito “sfumature abissali”.

UN GRANDE PAESE

Perché siamo diventati un popolo così scarsamente attaccato al proprio paese e così insensibili ad una convivenza civile? Sofri sottolinea la tendenza a ricorrere a spiegazioni storiche per giustificare questa nostra caratteristica; e tra le spiegazioni anche un pigro cattolicesimo fatto di indulgenze che, spesso, diventano assoluzioni di comodo. E da qui a scivolare in una “assenza di momenti di condivisione e ad una rassegnata convivenza” il passo è pericolosamente breve.

Una mentalità che ha portato a vedere con sospetto, quando non a dare una connotazione assolutamente negativa, alla parola elite. Un malinteso senso di egualitarismo che ha portato a esaltare l’uomo comune fino a farne il modello di autorità politica; uno tanto più simile a noi, magari anche peggiore di noi sa sicuramente cosa vogliamo come popolo. Da qui, come dice Severgnini, politici che non sono più leader ma followers preoccupati solo di accontentare gli animi senza essere un esempio. Perché essere un esempio comporta l’assunzione di responsabilità dell’insegnare. E Sofri ci dice invece che siamo un paese che ha messo sotto i piedi l’insegnamento in senso ampio perché, prima di tutto, non accettiamo lezioni. Per questo il cambiamento dovrà assolutamente ripartire dalla scuola o non ci sarà cambiamento. E questo mi sembra davvero il tema centrale del libro, questa la fame di futuro che scorre in mezzo a tutte le sue pagine.

Elite non dovrebbe essere qualcosa di cui aver paura: dobbiamo pretendere, e assumercene la responsabilità condivisa, di essere guidati da eccellenze. Invece c’è un malinteso senso di uguaglianza che è diventato demagogia: votiamo per chi sta nel territorio, per qualcuno con cui andremmo a bere una birra. Ma spesso, andare nel territorio, per Sofri è diventato mescolarsi al territorio anziché cambiarlo. E la demagogia ha preso il posto della pedagogia; e la pedagogia è un valore. E la pedagogia è il riconoscimento oggettivo di ciò che è un bene. E la pedagogia, in questo senso, è un cambiamento, quindi è futuro.

Scrive Sofri: “Ci sono le cose giuste e le cose sbagliate e bisogna fare quelle giuste. Rimettendo ognuno di noi al centro del problema, distinguendo tra il partire tutti uguali e l’arrivare tutti uguali, superando la pigrizia dell’essere sé stessi.” E questa frase mi offre un meraviglioso assist riguardo al termine importante anche per questo sito: cambiamento. Cosa vuol dire essere sé stessi? Cosa perpetua un invito del genere? Allora andare oltre questo e provare ad essere qualcun altro è una bella chance per cambiare; un modo per non subire la pressione di essere e “trasformare l’anelito alla fuga in un progetto.”

E il futuro è anche la buona educazione, il senso del limite. Buona educazione che, ci dice Sofri “abbiamo cominciato a spacciare per ipocrisia. La buona educazione con cui sceglievamo che cosa dire e cosa no.” Perché la spontaneità diviene spesso un alibi con cui ci si giustifica dicendo: “Sono fatto così”. Allora acquista un senso ancora maggiore l’invito a cominciare a cambiare sé stessi perché questo cambierà il mondo. Questa è eccellenza e questo è un concetto di elite un po’ diverso da elitarismo.

E il valore dell’esempio è carico di futuro, per riappropriarsi del valore delle cose: “le cose sono giuste o sbagliate indipendentemente da chi le afferma.” Un’altra bella provocazione sul valore delle parole e delle idee, dei progetti che necessitano di una condivisione pragmatica e non di cortili ideologici. Un invito a tornare al rispetto dell’idea che ci sono persone più colte, più preparate e autorevoli di noi e delle nostre piccole scatoline di certezze. Si può tornare ad essere orgogliosi di questo paese senza bisogno di ripescare un glorioso passato, senza vergognarsi di dirlo. Però ci vuole un anelito non miope che guardi solo al presente. Da qui l’importanza della cultura, dell’informazione e della scuola. E dell’umiltà di accettare lezioni. Un libro da leggere

Il blog di Luca Sofri è www.wittgenstein.it

A cura di Geraldine Meyer