Giuseppe: vivo a Porto Said, città che ha una ricca storia legata all’Italia

A cura di Maricla Pannocchia

Secondo Giuseppe, 62enne originario del Salento, la vita a Porto Said, Egitto, non è poi molto diversa da quella del sud Italia, “specialmente per chi è nato in questa parte del nostro Paese negli anni ’60 e ’70.”

La scelta di trasferirsi proprio lì è nata da necessità professionale. “La società italiana per cui al tempo lavoravo implementò la produzione di abbigliamento in Egitto indicandomi come production manager” racconta Giuseppe che, nel corso dell’intervista, ci accompagna non solo alla scoperta della sua storia personale ma anche di quella, più ampia, dell’Egitto e, in particolare, di Porto Said.

“Qui gli italiani sono molto apprezzati” racconta l’uomo che, a chi volesse trasferirsi in Egitto, suggerisce di non essere “schizzinoso” e di lanciarsi in quest’avventura. “Non credo che sia necessario fare dei sopralluoghi” continua Giuseppe, “L’importante, per vivere bene qui, è adattarsi agli usi e costumi locali. Parlare l’arabo non è obbligatorio ma, se lo parli, vedrai che i locals, già gentili per natura, si apriranno ancora di più nei tuoi confronti.”

Fra i progetti futuri di Giuseppe c’è il rientro nel suo amato Salento, per godersi la sua terra natale e stare vicino agli effetti, “ma pianifico di tornare 2 volte l’anno in Egitto per praticare la lingua araba, rivedere i miei amici e per sognare ancora.”

Giuseppe Fracella Porto Said Egitto

Ciao Giuseppe, raccontaci qualcosa di te. Chi sei, da dove vieni…

Ciao a tutti, sono un italiano nato e cresciuto in Salento, un lembo d’Italia dove, al sorgere del sole, guardando a oriente si scorge la penisola albanese del Kalabruni e, guardano a occidente, durante i tramonti d’autunno è facile scorgere le alture calabresi. È come una terra di mezzo, in mezzo al mare, in mezzo a due culture, in mezzo ai venti balcanici e a quelli libici, tramontana e libeccio. Ho 62 anni portati dignitosamente, 3 figli ormai adulti e con prole, sempre la stessa moglie e sempre la stessa professione, 40 anni di lavoro svolto con abnegazione e passione.

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Quando e perché hai deciso di lasciare l’Italia?

Nel 1983 iniziò la mia carriera lavorativa nel mondo della moda e della produzione di abbigliamento. Erano gli anni in cui il Sud d’Italia era un grande laboratorio a cielo aperto che dava lavoro a industrie medio-piccole del settore e anche a quelle a conduzione familiare. La mia città, Nardò, in provincia di Lecce, negli anni ’60 e ’70 aveva visto nascere tante attività manifatturiere, di biancheria intima, di ricami fatti a mano e di abbigliamento. Ogni garage brulicava di piccole attività in proprio o di appendici di grandi aziende dove gente laboriosa preparava o produceva parti di vestiti che poi venivano assemblate negli opifici più grandi e strutturati. Erano gli anni del boom economico italiano e del benessere, quando una società prettamente contadina riusciva a far laureare i figli e tentava di cambiare il futuro. Con il lavoro di tutta la famiglia, si poteva costruire anche la seconda casa al mare.

In questo contesto economico è iniziato il mio percorso professionale. Era il marzo del 1983 quando venni chiamato a ricoprire il ruolo di ragioniere di una piccola azienda di pantaloni. Data la mia enorme curiosità, dopo 6 mesi mi ritrovai catapultato a essere l’addetto alla verifica dei tempi di produzione direttamente nella linea produttiva. Circa 9 anni dopo, mentre dipendevo da un’azienda dello stesso settore ma molto più grande, mi venne offerta l’opportunità di operare delle trasferte in Albania. Oramai era iniziato l’ineluttabile percorso che da lì a poco avrebbe delocalizzato buona parte della produzione di abbigliamento italiano nei Paesi balcanici, man mano che questi si liberavano dalle dittature comuniste.

Da Otranto, porto italiano di imbarco, a Valona, porto albanese di sbarco, un traghetto della Lauro express impiegava solo 3 ore e 20 minuti. Era appena iniziata la migrazione di tante aziende italiane nel Paese delle Aquile dove l’industria tessile di un Paese allo sbando cercava commesse per dar da mangiare a una popolazione affamata che usciva da circa 50 anni di distruttiva, arretrata e dittatoriale economia comunista.

Quell’esperienza è durata ben 12 anni tra Valona, Fier, Durazzo, Tirana e Patos, tutti città e paesini albanesi dove riaprivano e si rigeneravano come funghi le vetuste fabbriche statali. All’inizio fu una sfida ma ben presto, grazie alla tecnologia italiana e alla professionalità e pazienza di manager italiani, il made in Albania permise a tante aziende italiane di sopravvivere, passando da aziende di produzione ad aziende di servizi.

Man mano che l’Albania si saturava di attività produttive si andava alla ricerca di nuovi Paesi fertili dal punto di vista manifatturiero e così, nel settembre del 2004, approdai in Egitto, nella città di Porto Said, imbocco mediterraneo del canale di Suez.

Ora abiti in Egitto. Come mai hai scelto di trasferirti proprio in questo Paese?

Dal 2004 al 2018, ho vissuto gli anni più belli della mia vita, composti dal mondo arabo, dai profumi d’Oriente e dalla scoperta di un’Italia a me ignota nel Paese delle piramidi.

Nel frattempo, ero stato contattato da una società molto importante che necessitava di un manager italiano in Egitto. La proposta fu allettante e così mi ritrovi catapultato in Africa, ma con un piede in Asia, perché proprio da Port Said passa il confine geografico tra Africa e Asia, tra Port Said, il Canale di Suez e Port Fuad, il primo lembo del Sinai che, geograficamente, è Asia, ma, politicamente, è sempre Egitto.

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La vita in Egitto scorreva placida, in un’atmosfera rilassante, tra inebrianti profumi di spezie e ammaliante musica ritmata al suono di tamburi e flauti. Non era l’Egitto caotico di Sharm e-Sheikh o quello polveroso del deserto ma l’Egitto laborioso di una città, Porto Said, che aveva visto passare, stabilirsi, lavorare, vivere e persino morire migliaia d’italiani in cerca di fortuna o di migliori condizioni di vita.

La storia di Porto Said, così come la conoscono tutt’ora gli italiani d’Egitto e non solo, inizia con la costruzione del canale di Suez, ideato dall’ingegnere italiano Luigi Negrelli ma, di fatto, compiuto dal famoso costruttore francese Ferdinand De Lesseps.

Furono decine di migliaia gli italiani che lavorarono all’opera che, per i tempi, era colossale. Stiamo parlando di scalpellini, marinai, artigiani e semplici operai con tanti preti e suore al seguito.

Come descriveresti questa città?

Ho vissuto a Porto Said fino a dicembre del 2017. Vivevo nella parte europea della città, quella edificata immediatamente dopo l’apertura del canale di Suez inizialmente in stile coloniale e, poi, arricchita con architettura d’inizi Novecento in stile italiano, greco, maltese, francese, inglese e libanese, perché queste erano le genti che la abitarono nella massima parte fino al 1956, quando le nazionalizzazioni di Nasser e poi la guerra israelo-araba costrinsero gli europei alla fuga forzata e, in qualche caso, a una vera e propria cacciata, costretti ad abbandonare case, affetti e ricchezze.

Vi rimasero solo gli edifici, che continuano a dare alla città unaspetto tipicamente europeo, le chiese cattoliche, maronite e greco ortodosse, gli ospedali, i depositi di auto e mezzi della compagnia dell’anglo-francese che gestiva il Canale di Suez. Persino la sinagoga venne distrutta subito dopo la cacciata degli abitanti di religione ebraica.

Di fatto la città, la parte europea di Porto Said, venne abbandonata al suo destino e gli edifici e le attività che una volta risplendevano di colori, profumi e sapori del Vecchio Continente vennero man mano abbandonati e i suoi abitanti sostituiti. Il declino fu quasi immediato. Ne rimasero veramente pochi di europei o latini, così venivano chiamati i levantini cristiani di Siria, Libano e Palestina, qualche decina di italiani, qualche ventina di greci, qualche maltese, qualche libanese, qualche jugoslavo, tutte persone che furono costrette a prendere la nazionalità egiziana pur di mantenere modeste attività soprattutto artigianali, famiglie che non avrebbero potuto fare altro nei Paesi di origine per cui, a malincuore, decisero di restare in un Paese che era oramai cambiato e che li vedeva come ospiti indesiderati.

Ho conosciuto e incontrato gli ultimi attori e testimoni di questa storia che pochi hanno avuto il coraggio di raccontare per paura, per ignavia o per convenienza.

Ecco, ho avuto l’onore di vivere per 14 anni in questa città europea in terra d’Egitto, una terra bella e amara al tempo stesso.

Come hanno reagito amici, parenti e conoscenti davanti alla tua scelta?

All’inizio abbastanza bene, nessuno della mia famiglia pensava che quella sarebbe diventata la mia nuova città di residenza e che tale sarebbe dovuta rimanere per 14 anni. Pian piano mi adattai alle necessità lavorative e spesso la famiglia veniva da me durante le vacanze o nei periodi in cui le scuole sospendevano le attività. Ho vissuto per 10 anni in un resort fronte mare, il Mediterraneo, con piscine, giardini e ogni genere di comfort, per cui sono stato bene e, quando la mia famiglia è stata con me, siamo stati benissimo, poi il volo da Il Cairo a Roma dura solo 3 ore e in 2 ore di auto si raggiunge Il Cairo da Porto Said per cui in 12 ore ero già a casa, in Italia, e spesso lo ero quasi tutti i fine-settimana. I miei figli erano entusiasti ogni volta che venivano in Egitto, anche perché da Porto Said ci spostavamo spesso a Sharm el-Sheikh, a Hurgada, a Il Cairo, ad Alessandria d’Egitto e a Ras El Bar, posti caratterizzati da mare e sole. Mia figlia si è portato un ricordo indelebile e una grande opportunità professionale dall’esperienza egiziana, laureandosi in lingue orientali, arabo per l’appunto, e ora ha un prestigioso posto di lavoro in Svizzera, per il quale è richiesta la conoscenza della lingua araba.

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Come ti sei organizzato prima della partenza?

La prima partenza è stata come “l’addio ai monti” di manzoniana memoria ma poi la paura o la preoccupazione è subito rientrata quando ho scoperto che l’Egitto mediterraneo ha molte cose in comune con l’Italia del Sud da cui provengo. L’organizzazione alla partenza è tramutata presto in piacevole permanenza.

Di cosa ti occupi?

Ero e sono tuttora un manager di produzioni moda e abbigliamento. Rappresentiamo e curiamo la qualità e la logistica di brands italiani che vengono prodotti all’estero. Una bella professione che ti fa vivere bene, ti fa viaggiare e allargare il campo culturale. Quando si vive a stretto contatto con altri popoli ami molto di più la tua terra d’origine ma impari a rispettare tutti, soprattutto il Paese che ti ospita. Non si può vivere 14 anni in Egitto se non si conoscono la cultura, la lingua e, soprattutto, se non si rispettano gli usi e i costumi di chi questa meravigliosa terra la abita. Bisogna anche essere tolleranti e rispettare la religione islamica professata da circa l’85% della popolazione, il resto degli abitanti sono cristiani copti, evangelici e cattolici.

L’Egitto è il Paese arabo con la maggior concentrazioni di cristiani d’Oriente, circa 15 milioni, soprattutto cristiani ortodossi che hanno il loro Papa ad Alessandria d’Egitto e, inoltre, l’Egitto ospita il più antico monastero del mondo, quello di Santa Caterina, alle pendici del Monte Sinai, dove Mosè ricevette le “Tavole della Legge “ o i “ 10 comandamenti.”

Come funziona, per un italiano, per avviare un’impresa lì?

Intanto bisogna adattarsi a una nuova realtà lavorativa, avere una buona conoscenza se non padronanza della lingua inglese e poi cercare di trasferire sistemi e metodi di procedure in un contesto estero sicuramente differente dal nostro. L’interazione degli egiziani è più lenta rispetto ai nostri standards perché la concezione del tempo è differente. Servono una buona dose di pazienza e una di perseveranza per raggiungere gli obiettivi e, soprattutto, se si vuole avviare un’impresa produttiva e/o commerciale, è bene avere chiaro che la partnership egiziana è indispensabile.

Credi che, dal punto di vista salariale, convenga lavorare in Egitto come dipendenti?

Dipende. Direi di sì se si è dipendenti di società italiane, nel qual caso lo stipendio verrà erogato in Italia con l’aggiunta in busta paga di diaria o trasferta più benefit, o, viceversa, se si è dipendenti di aziende straniere registrate in Egitto, in qual caso è bene avere un contratto registrato. Ovviamente, per chi decide o accetta di lavorare all’estero, questo conviene da un punto di vista retributivo perché la condizione di lavorare in un Paese straniero con differenti condizioni di vita e comodità viene monetizzata. Nel caso di posizioni apicali o manageriali vale ancora di più perché, oltre a tutto quello già premesso, viene indennizzata anche una “indennità“ di responsabilità. In ogni caso, bisogna fare sempre attenzione ai benefits collegati allo stipendio e alla mansione, tipo numeri di rientri e quindi viaggi da e per l’Italia, rimborso pasti e assegnazione di auto con drive (in Egitto è sconsigliabile guidare perché il sistema di guida di quel Paese è molto caotico e spesso pericoloso).

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Puoi dirci il prezzo di alcuni beni e servizi di uso comune?

Decisamente il prezzo del pane e quello del carburante sono inferiori di molto rispetto a quelli che ci sono in Italia e, se a ciò si somma al cambio Euro/pound egiziano, nettamente favorevole alla nostra valuta (1 euro equivale a 33 pounds egiziani), è facile determinare la convenienza. In Egitto vi sono differenti tipologie di benzine, con più o meno numero di ottani, un po’ com’era in Italia fino a 30 o 40 anni fa. Anche sugli alimenti di prima necessità si riscontrano prezzi variabili, per esempio il pane “baladi “, acquistabile nei tanti forni o chioschi che s’incontrano per strada, soprattutto nei quartieri popolari, costa molto ma molto meno del pane che si può acquistare al supermercato. La carne, invece, ha prezzi molto vicini a quelli italiani ed è diventata proibitiva per molti egiziani con redditi medio/bassi. Il pollame è ancora una delle carni più consumate perché costa meno. In Egitto, fino a poco tempo fa, era conveniente comprare verdure e cereali, soprattutto fave, ma, ultimamente, tutto è rincarato, tanto che il governo ha dovuto ristabilire una sorta di tessere di povertà per aiutare i ceti più deboli. Il pesce è più abbordabile sulle zone costiere ma, spesso, nei mercati locali, si trova pesce in cattivo stato di conservazione. Il pesce di acqua dolce o fiume è quello meno costoso e più utilizzato dalla popolazione locale, a Il Cairo è molto famoso il “bulti”, una sorta di alimento nazionale che si serve soprattutto grigliato.

Quali sono gli errori che, solitamente, fanno gli italiani che si trasferiscono in Egitto?

Il tipico errore del nuovo arrivato è quello di fare lo “ schizzinoso “ per ciò che riguarda igiene e pulizia ma presto ci si adegua, così come a pagare taxi o dare mance molto più alte rispetto a quello che lasciano o pagano i locali. In questo modo, non facciamo altro che rendere la vita dell’egiziano medio ancora più complicata o, peggio, passiamo per polli da spennare.

Sui taxi è bene chiedere preventivamente il costo della corsa o l’attivazione del tassametro, soprattutto nelle città turistiche e nella stessa Il Cairo. Evitate di acquistare dai mercati popolari se non conoscete la lingua o se non sapete contrattare. Gli egiziani amano contrattare per cui il prezzo dato a uno straniero è quasi sempre il doppio o il triplo di quello che paga un egiziano. Per la spesa giornaliera conviene il supermercato, avrà magari prezzi più alti ma questi sono esposti e uguali per tutti.

Credi che, prima di trasferirsi lì, sia necessario andarci almeno qualche volta per “tastare il terreno” oppure che sia possibile fare le valigie e partire direttamente?

No, non c’è necessità di sopralluoghi o visite preventive, basta solo un po’ di adattamento, soprattutto al caldo dei mesi estivi, al traffico caotico o rumoroso e all’igiene, che spesso latita.

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Come ti sei mosso per trovare un alloggio?

Inizialmente l’alloggio mi è stato offerto dalla società per cui lavoravo, dopo l’ho cercato autonomamente, conviene molto di più che affidarsi alle agenzie. Gli affitti nei quartieri della Cairo bene costano quanto quelli italiani, se non di più, ma anche in altre città si può incappare in costi esosi. Ovviamente, il prezzo dell’affitto dipende dalla tipologia e dall’ubicazione dell’alloggio.

Quali sono le zone in cui vivere bene spendendo il giusto?

Le zone dove si vive meglio, a prezzi relativamente economici, sono quelle attigue alle periferie delle zone vip, per esempio a Il Cairo si possono pagare anche 1500 Euro al mese per un appartamento modesto a Zamalek ma la stessa tipologia di appartamento a Dokki, un chilometro dopo, scende a 1000 Euro mensili. Vi sono, poi, città satellite della capitale, di nuova costruzione, che costano ancora meno. Ad Ashara Ramadan, 10 Ramadan, a 50 km dal Cairo, un appartamento dignitoso costa 180/200 Euro al mese ma si deve essere automuniti per raggiungere la capitale, se bisogna andarci a lavorare.

L’estrema periferia de Il Cairo, dove si concentra la maggior parte della popolazione, è di fatto un dormitorio con pochissimi servizi, scarsissima igiene ma prezzi, per noi occidentali, molto accattivanti. Con 120 Euro al mese si può affittare un piccolo appartamento, gas ed elettricità costano molto meno rispetto all’Italia, ma bisogna fare molta attenzione, spesso sono quartieri poco sicuri.

Che consigli daresti a dei connazionali in cerca di un’abitazione a Porto Said?

Consiglierei di andare ad abitare nella parte vecchia, la zona europea oppure in uno dei resorts fronte mare, prossimi alla parte europea della città, uno tra tutti il complesso “Marhaba”. Evitate le agenzie, parlate con la gente nella zona che più vi piace e chiedete loro informazioni. Si metteranno subito a disposizione e queste persone valgono più di 1000 agenzie.

Come sei stato accolto dalla gente del posto?

Magnificamente. Il privilegio di essere italiani lo si nota molto a Porto Said perché i porto saidini, soprattutto gli anziani, hanno un buon ricordo degli “taliani”e qualcuno di loro lo parla ancora. In questa città fino al 1945 c’erano più di 5.000 italiani, vi erano 2 banche e 3 scuole, una gestita dal governo italiano presso la sede del consolato d’Italia e altre due da istituti religiosi, la scuola “francescana“ ancora attiva e quella salesiana di “Don Bosco “. La gente di Porto Said mi ha accolto, rispettato e coccolato. Sono persone fantastiche, amichevoli e allegre, che hanno sempre convissuto in una città cosmopolita dove si parlavano tutte le lingue e soprattutto l’italiano, tanto che alcuni termini sono ancora di uso comune.

Pensi che conoscere l’egiziano sia fondamentale per integrarsi?

Non è essenziale ma è molto apprezzato, se i locali ti sentono parlare l’arabo egiziano diventano subito più socievoli e disponibili, più di quanto non lo siano già per natura.

Io ho avuto il privilegio d’integrarmi presto e di parlare la loro lingua già dopo il mio primo anno di permanenza. Esperienza fantastica che ho trasmesso a mia figlia che, come ho accennato in precedenza, si è laureata in lingue orientali, nello specifico, in arabo.

Quali sono le differenze e gli eventuali punti in comune tra lo stile di vita egiziano e quello italiano?

Tante le differenze ma altrettante le cose in comune. Inizio da quest’ultime perché danno maggiormente l’idea di come si possa vivere bene in Egitto. Intanto, premetto che per un italiano del sud, sia esso pugliese, siciliano, calabrese o campano, è molto più facile vivere in Egitto, soprattutto se è nato in Italia negli anni ‘60 e ’70. Si ha quasi la percezione di un déjà vu, un ritorno al passato. Stessi odori di cibo, stesse strade chiassose e piene di vita, stessi gruppi di ragazzini che giocano a pallone per strada, i negozi aperti fino a tardi, le persone anziane che usano far scendere giù dal balcone il cesto di vimini o la sporta per farsi caricare la spesa dall’ortolano o dal pescivendolo, il venditore ambulante che passa strada per strada per vendere oggetti per la casa e l’artigiano che gira per sistemare cucine a gas o sedie rotte.

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Tra le differenze ci sono sicuramente l’abbigliamento dei locali, con alcuni uomini ancora in “galabeya“, il tipico saio arabo, e le donne totalmente velate o coperte, fortunatamente sempre di meno da quando il Presidente Elsisi è al potere e, poi, il richiamo delle moschee 5 volte al giorno, con quello più invadente dell’alba, almeno fino a quando non ci siamo abituati.

Giuseppe Fracella Porto Said Egitto

Cosa si fa, a Porto Said, in ambito artistico, ricreativo e culturale?

Porto Said è una città artisticamente viva, oltretutto, è la città natale del famosissimo cantante egiziano, conosciuto in tutto il mondo arabo, Amr Diab, ma vi sono anche gallerie di arte moderna e un museo militare delle guerre arabo-israeliane. Il mercato ittico della città vecchia, il bazar delle verdure sempre di quella zona, è molto folcloristico e vivace così come la famosissima strada “El Gomorya“ che porta dritti al palazzo del canale di Suez. Sicuramente da visitare la maestosa cattedrale latina, oggi gestita dagli ortodossi, di viale XXIII Luglio e, sempre lì, l’imponente consolato Italiano, oggi dismesso, in tipica architettura veneziana di fine ‘800. Il cimitero latino, con le sue vecchie cappelle gentilizie e le foto di tante persone decedute nel secolo scorso, è sicuramente da visitare, nonostante l’incuria. Desteranno curiosità lo stile e l’abbigliamento delle foto poste sulle lapidi ancora ben conservate. Attiguo al cimitero latino, c’è quello del Commonwealth, dove riposano militari inglesi dell’impero britannico, deceduti in quelle terre durante la Prima Guerra Mondiale. Non può mancare la visita alla chiesa parrocchiale di Santa Eugenia, un tempo punto di riferimento della comunità italiana, con annesso monastero francescano, entrambi aperti al culto.

E, sempre per gli italiani, a Porto Said c’è ancora la “Casa del Fascio” in tutto il suo splendore, esempio dello stile impero che arricchì l’architettura di tante città italiane durante gli anni ’20, ’30 e ’40.

Prima di lasciare la città non mancate di attraversare il Canale di Suez e di trovarvi catapultati in Asia, infatti, come già detto, il Canale divide la parte “africana“ di Porto Said da quella “asiatica”, Porto Fuad. Il traghetto, in arabo “mahaddya”, è gratis per i passeggeri senza auto.

In città o nei dintorni, ci sono delle attrattive turistiche?

Sì, dalla salina di Porto Fuad, al lago di Manzala per arrivare alla località di Ras El Bar, punto in cui un ramo del delta del Nilo sfocia nel Mediterraneo. In un giorno si può fare questo bel tour: provenendo da Il Cairo, direzione Port Said e viceversa, si può ammirare il ponte di Al Kantara che unisce le due sponde del canale di Suez. Imponente e architettonicamente slanciato, nel punto centrale permette il transito di navi con altezze ragguardevoli come portaerei, porta containers e navi gasiere. Il ponte è stato realizzato dai giapponesi.

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Quali sono state le principali difficoltà che hai dovuto affrontare?

Direi nessuna. In Egitto, se sei una persona versatile e poco schizzinosa, riesci a sentirti quasi subito a casa, almeno per me che provengo dal sud della penisola.

Quando parli della tua vita con persone che vivono ancora in Italia, è facile oppure no?

Onestamente faccio fatica, forse sono io a essere sintonizzato su altre frequenze, ma può anche essere che sono gli altri che sono rimasti immutati. Preferisco dialogare con la gente cosmopolita, che ha una mentalità più aperta.

Cosa ti manca di più della tua nazione di origine?

Mi mancano i colori, i profumi, il cibo di strada, il vociare dei bambini, la solarità delle gente e poi il clima, il tepore dell’aria e il colore del cielo.

Puoi raccontarci qualche incontro o momento con la popolazione locale che ricorderai per sempre?

Il più bel ricordo che mi porterò per sempre nel cuore fu quando, in una casa di riposo gestita da un ordine religioso cattolico francese, incontrai due anzianissime donne italiane, che erano nate da famiglie italiane che si erano stabilite a Porto Said a fine ‘800 o inizio ‘900, in particolare Maria Costantina, centenaria, che mi raccontava di un’epopea fantastica, di una convivenza culturale e religiosa bellissima, di ricordi purtroppo brutti di guerre che, dal 1956 al 1973, hanno sempre interessato la città di Porto Said.

Bellissimo fu poi l’incontro con le suore, oggi tutte egiziane, della scuolafFrancescana e con i frati francescani che tuttora gestiscono la chiesa di Santa Eugenia e hanno la custodia del cimitero latino.

Quali sono state, finora, le gioie e le soddisfazioni più grandi?

Accumulo entrambi i sentimenti e sicuramente ritengo appagante che, a oggi, sono tantissimi gli amici egiziani con cui intrattengo rapporti di sincera amicizia e rispetto. Un ricordo indelebile è l’incontro con il grande Omar Sharif di cui, purtroppo, non ho più le foto e con il celebre egittologo Zahi Hawass.

Cos’hai imparato, fino ad oggi, vivendo in Egitto?

Ho imparato a rispettare le altre culture, tutte le religioni e ad avere un concetto diverso del tempo.

Che consigli daresti a chi vorrebbe trasferirsi lì?

Consiglierei di farlo senza tentennare, di non fare molte valutazioni senza vivere quella realtà per almeno 6 mesi e di non essere scettico.

E quali a chi vorrebbe andarci in vacanza?

Suggerirei di non fermarsi solo Sharm el-Sheikh o Hurgada. Sotto molti aspetti, Marsa Alam è molto più bella e interessante o, ancora, lo è la primordiale Berenice. Invece di fare la crociera sul Nilo, andate a visitare l’oasi di Siwa e, invece dell’ormai turistico Khan El-Khalily, fatevi portare al mercato di Hataba, meno conosciuto, dove si può vivere il vero Egitto.

Progetti futuri?

Rientrare finalmente nel mio Salento per godermi la mia terra e i miei affetti, imponendomi però di tornare 2 volte l’anno in Egitto per praticare la lingua araba, rivedere i miei amici e per sognare ancora.

Per seguire e contattare Giuseppe:

Facebook: Giuseppe Fracella e “ salviamo il consolato d’Italia di Port Said “.

Instagram :giusalnt