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Post - Chandos

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Quanto al post di NiloMaria, si può essere d'accordo sulla sostanza, se non sulla forma. L'Italia è generalmente stata spesso dominata da stranieri che ne hanno depredato le ricchezze (spagnoli, francesi, austriaci, finanza sovranazionale) e quando è stata in mano agli italiani, gli italiani non si sono comportati diversamente, anzi. Non è nulla di nuovo, direi. E' il popolo italiano, semmai, ad essere sorprendente. Il mio romanzo è meno ambizioso, tratta di situazioni precise.

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Grazie Pablo 68, mi farà molto piacere la tua impressione. Sì. mi trovo in Asia, e più precisamente in Thailandia. Ho seguito la regola di scrivere dei luoghi e delle situazioni che si conoscono. Parte del romanzo si svolge a Hong Kong e a Bangkok.

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Scusate, vedo che la trama non è apparsa correttamente. La ripeto qui sotto:

Paolo Euron, Anni senza tempo, disponibile come e-book online (0.99 €).

La storia di Stefano e Alberto percorre gli ultimi quarant’anni di vicende italiane. I due amici, ambiziosi e pieni di progetti, si misurano con l’immobilismo, il clientelismo, con una società che attua la sistematica distruzione della speranza e del futuro. Stefano, dopo anni di precariato e senza lavoro, decide di lasciare l’Italia. Col tempo, troverà la propria vita in Thailandia e, con questa, troverà anche nuove ragioni per viverla e risposte alle proprie domande. Un romanzo a lieto fine sul dramma di chi ha dovuto e dovrà nel prossimo futuro lasciare l’Italia. Un libro che racconta come il mondo sia più grande di quello che si pensa, che la speranza è la materia prima di cui è fatta la storia, che le idee sono l’unica forma del futuro che ci è dato toccare già nel presente.

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Non so quanti studiosi, artisti, scrittori, professori italiani siano a lavorare per il mondo. Io ne ho contati tanti, in posizioni prestigiose, tutti all’estero. Talenti non riconosciuti, traditi, respinti o semplicemente intellettuali disperati, disgustati dall’Italia, che una volta all’estero non tornerebbero più indietro per nulla al mondo. Ho scritto un romanzo su tutto questo. È una storia, i personaggi sono inventati, ma i fatti e le parole appartengono a vicende autentiche e persone reali, drammaticamente reali. Tutto è assolutamente vero.
Mi piacerebbe avere l’impressione di lettori che hanno lasciato l’Italia, o di chi la dovrà lasciare, o lo vorrebbe fare oppure ha ragioni per non farlo. Mi interessa molto il punto di vista di lettori che hanno presente il problema o si interrogano sulla questione. Soprattutto, mi auguro sia di conforto e aiuto a chi sceglierà di lasciare l’Italia nel prossimo futuro. Per chi avrà interesse a leggerlo e a scrivermi qualcosa in merito, grazie!

Pubblico qui la trama e un paio di estratti, tanto per dare un’idea.

Paolo Euron, Anni senza tempo, disponibile come e-book in rete (0.99 €).

La storia di Stefano e Alberto percorre gli ultimi quarant’anni di vicende italiane. I due amici, ambiziosi e pieni di progetti, si misurano con l’immobilismo, il clientelismo, con una società che attua la sistematica distruzione della speranza e del futuro. Stefano, dopo anni di precariato e senza lavoro, decide di lasciare l’Italia. Col tempo, troverà la propria vita in Thailandia e, con questa, troverà anche nuove ragioni per viverla e risposte alle proprie domande. Un romanzo a lieto fine sul dramma di chi ha dovuto e dovrà nel prossimo futuro lasciare l’Italia. Un libro che racconta come il mondo sia più grande di quello che si pensa, che la speranza è la materia prima di cui è fatta la storia, che le idee sono l’unica forma del futuro che ci è dato toccare già nel presente.
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(Paolo Euron, Anni senza tempo, dal capitolo 29)
Stefano continuò a insegnare nei seminari, a condurre ricerca, anche se con sempre meno voglia, con sempre minor motivazione. In fondo anche lo studio gli interessava sempre meno, era quasi come dover ammettere una menomazione, una malattia vergognosa. Non ne parlò più al professor Bezoghene. Era stanco di veder sollevare le braccia con impotenza. Non soltanto il barone, ma anche tutti quelli che lo seguivano nell’ordine gerarchico, avevano adottato lo stesso gesto di rassegnazione. Bastava che lo incrociassero per le scale e gli chiedessero come andava e subito dopo eseguivano lo stesso movimento sconsolato, a volte anche senza attendere la sua risposta, certe volte perfino senza neppure domandare. Persino in sogno vedeva i professori associati e i ricercatori, perfino gli uscieri e le donne delle pulizie che, neppure interpellati, sollevavano le braccia in gesto di impotenza. E durante la veglia ogni progetto, ogni idea, ogni prospettiva che proponeva veniva accolta con il medesimo movimento delle braccia. Era un’intera società che sollevava le braccia a ritmo di jingle pubblicitario, in un atto di prostrazione quasi religiosa, di fronte a un dio cui non credevano ma che non si sa mai, era un gesto anticipato di resa, a qualsiasi condizione. Stefano era stanco di veder ripetere quel gesto.
“Voglio tornare in Germania”, disse infine a Marta, mentre camminavano assieme sotto i portici, un giorno di tarda primavera. “Là almeno guadagno qualcosa.”
“Se hai bisogno di soldi, io ti posso aiutare.” Per fortuna di tanto in tanto il tram passava sferragliando lungo via Po e rendeva inutile parlare. Questo lasciava del tempo per riflettere.
“Grazie. Ma non è questione di soldi. Neppure di lavoro. È una questione di avere una posizione nel mondo in cui vivi. Fare qualcosa nel mondo; avere qualcuno che crede in quel che fai, non so, cose del genere... Non ho neppure più interesse nella ricerca, che era il senso della mia vita.”
“Capisco benissimo. Anzi, mi chiedo come mai ti ostini a rimanere qui”, disse Marta, con dolcezza. Stefano notò che in certi angoli del corpo era diventata piuttosto rotonda, i suoi gesti sembravano più lenti, le sue domande meno pressanti. Si chiese come potesse apparire lui a lei, se era ancora immutato come si sentiva dentro. Il tempo pareva immobile ma i loro corpi se ne infischiavano del tempo e seguivano la china della realtà.


(Paolo Euron, Anni senza tempo, dal capitolo 32)
Stefano trascorse alcuni mesi in Italia, attendendo che qualcosa succedesse. Insegnò all’università in un paio di seminari, senza essere pagato, perché credeva ancora che quelli che lavoravano all’università fossero migliori degli altri, o che avessero più possibilità, e comunque non aveva altro da fare. Il professor Bezoghene era sempre più spesso assente e c’era gran bisogno del lavoro di un tappabuchi. Intanto presentò diverse domande di lavoro a numerose ditte, case editrici, agenzie di pubblicità e ovunque potesse valere il suo curriculum, ma senza risultato, senza neppure ottenere una risposta. Mandò una lettera a tutti i critici, studiosi e scrittori che aveva conosciuto, ma non ottenne che pochi vaghi consigli e nessuna raccomandazione. Sapeva bene che una raccomandazione significava tutto. Scorrendo il libretto degli indirizzi trovò il nome del direttore de “Il Verri”. Era morto anni prima, e con lui era finita una generazione di studiosi che ormai esistevano soltanto più nella sua rubrica e nella memoria, una generazione che i loro discepoli lavoravano per seppellire. Pensò che il tempo in realtà esisteva e scorreva, eccome, anche se tutto attorno a lui pareva essersi arenato. Tuttavia non poteva far altro che attendere che succedesse qualcosa.
Il costo della vita in Italia, però, era di gran lunga superiore a quello della vita in Germania. Presto non ebbe più i soldi per spedire le lettere, per inviare i manoscritti, per fare le telefonate. Allora preferiva non fare niente, si sedeva su una panchina del centro e guardava gli altri passare. In fondo, si diceva, gli costava di meno che tentare di lavorare. Guardava la gente passare e cercava di indovinare quelli che si guadagnavano il loro stipendio a fine mese, capitasse quel che capitasse, lavorando o meno.
Percepiva attorno a sé una società ostile, nemica. Ancora una volta pensò che era stanco di scrivere, non gli interessava più. E perché scrivere, poi? Chi gli avrebbe riconosciuto quegli sforzi e quel tempo e la fatica spesa? Aveva progetti meravigliosi in testa, idee che avrebbero gettato luce dove nessuno aveva mai pensato ci fosse qualcosa da illuminare, dove nessuno aveva ancora ricercato... Ma a che valeva tutta la fatica che gli sarebbe costato quel lavoro? A che scopo? E per chi? Meglio non fare niente. Così gli capitava di trascorrere delle ore, seduto su una panchina in piazza Castello, a osservare la gente che passava sotto i portici davanti alle vetrine, fino a che le luci si accedevano e gli spazi dietro al vetro apparivano più nitidi e reali del mondo fuori, di quello abitato. Pensò che il problema non era che gli mancava il lavoro. Gli era stato negato qualcosa di ben più importante. Gli era stata negata la speranza. Questa era la perdita peggiore. Non scorgeva alcun futuro e avvertiva il proprio mondo come una minaccia.
Sentiva un rancore sordo che gli montava dentro, non sapeva in che cosa avesse sbagliato, che cosa potesse recriminare a se stesso o agli altri, ma gli venivano in mente le parole di Sergio e rifletteva amareggiato sul proprio paese.


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