Una famiglia italiana in Wisconsin

Quella di Renata con gli Usa è una storia d’amore lunga anni; ben prima del suo trasferimento. Uno di quei luoghi dell’anima, di quelle geografie del cuore che ti si appiccicano addosso da bambini e, in qualche modo, non ti lasciano più. “Sì, gli Stati Uniti fanno parte della mia vita da sempre – ci racconta al telefono – visto che anche i miei ci hanno vissuto. Mio padre lavorava all’Olivetti e credo abbia passato più tempo qui che in Italia e mio fratello è nato negli Usa.” Un’attrazione che comincia con le parole e con la loro magia: “I miei genitori, quando volevano dirsi cose che noi figli non dovevamo capire, parlavano l’inglese. E così, questa lingua per me è diventata quasi la lingua dei segreti, assumendo ancora più fascino.” Poi l’incontro con quello che è diventato suo marito e che, da subito, ha condiviso con lei la passione per gli Usa. “Mio marito è consulente informatico e già mentre lavorava a Milano ha sempre espresso al suo capo il desiderio di trasferirsi a vivere negli Usa. Ci sono state alcune esperienze tra cui tre mesi a Los Angeles. Io e i miei figli lo abbiamo raggiunto per un mese. In precedenza c’era stata anche un’esperienza a Detroit. Tutte cose che non facevano che radicare sempre più il nostro desiderio di costruirci una vita in questo paese.”Poi, sette mesi fa, l’occasione giusta: Kenosha nel Wisconsin, tra Chicago e Milwaukee, nella regione dei grandi laghi. “La dimensione giusta per noi che non amiamo troppo le grandi città. Questa è una cittadina relativamente piccola e rappresenta la dimensione ideale per noi e per i nostri figli.”

WISCONSIN, USA

Renata ha due ragazzi, Francesca e Stefano, di undici e nove anni che hanno subito abbracciato questa avventura con entusiasmo e apertura. “Si sono ambientati benissimo nella comunità e a scuola e la loro serenità mi aiuta moltissimo. Credo che per loro questa vita americana rappresenti davvero una grossa opportunità. Si stanno costruendo un bagaglio di esperienze che servirà loro comunque, qualunque cosa decideranno di fare nella vita e in qualunque posto vorranno vivere. Stanno facendo grandi progressi: a scuola sono seguiti da un tutor sebbene sia una scuola pubblica. Tanto per dirti come funzionano qui le cose.”

Forse la cosa che Renata avverte maggiormente è proprio il senso della comunità.

“Ti racconto questo episodio. Durante una gita scolastica mio figlio, alla fine del pranzo, si è alzato e ha sparecchiato, buttando via i resti del pic nic. Pochi giorni dopo mi hanno telefonato a casa per elogiare questo comportamento e mio figlio ha ricevuto un attestato di premio. Beh, forse può sembrare un’americanata tipica, ma io trovo che siano gesti che aiutano a costruire un senso di appartenenza e che facciano parte di quel pragmatismo e senso della meritocrazia così diffuso in questo paese: se sei bravo ti premio. Un modo per far capire che se fai qualcosa per la tua comunità, la comunità se ne accorge e non lo fa passare inosservato.”

E in effetti questa sembra davvero una caratteristica di un paese e di un popolo ancora giovani, con uno spirito giocoso, non facile da capire per noi europei, così carichi di storia e anche di gesti che un po’ hanno sopito questi entusiasmi. Il discorso sulla mentalità americana mi interessa molto e per questo chiedo a Renata se ci sia un rovescio della medaglia. “Sì c’è ed è un sottofondo guerrafondaio, trasversale, che riguarda un po’ tutti, indipendentemente dalle idee politiche. Qui l’esercito e i militari sono venerati. Le forze armate sono qualcosa di cui andare orgogliosi. Il paese e la bandiera sono davvero dei valori. E ci si riallaccia al discorso di prima: senso della comunità ma, se esasperato, un sentimento di difesa del proprio paese che può avere conseguenze nefaste.”

WISCONSIN, USA

“Anche dal punto di vista culturale – prosegue Renata – questa cosa si fa sentire, per esempio, nell’impreparazione geografica. Gli americani conoscono il loro paese ma per il resto ignorano abbastanza ciò che sta fuori dai loro confini: sia geograficamente sia storicamente. Ecco, in questo noi europei siamo forse più attenti e curiosi.”

Chiediamo a Renata come sia stato ambientarsi all’inizio. “Non semplicissimo. Per i primi cinque mesi abbiamo dovuto vivere in un residence: pochissimo spazio e provvisorio. Non era una casa, non era una nostra casa. E questo ha avuto qualche ripercussione anche sulla vita di relazione. Era davvero un posto molto piccolo che non ci consentiva neanche di invitare qualcuno a cena. Per noi è stato pesante perché, sia io sia mio marito, di carattere siamo molto socievoli e ci piace circondarci di amici. Ma tutto sommato è andata bene. Ora abbiamo una casa molto bella e siamo perfettamente integrati.”

Cosa ti è mancato di più all’inizio?

“Direi il mio giro di amici. Si erano create delle abitudini, anche semplici, con le mamme dei compagni di scuola dei miei figli: piccole cose che fanno una vita. E i primi tempi mi sono mancate tantissimo, mi mancava poter chiacchierare con loro, telefonare quando volevo. Ho sentito più forte la loro mancanza che quella della famiglia; ma non perché me ne importasse meno, solo che con i miei eravamo già abituati a vederci meno perchè abitavamo in città diverse. Ma ora ci siamo assestati e tra skype e mail il contatto con i miei affetti è quotidiano. E poi mi sto costruendo delle belle amicizie anche qui.”

Forse è una domanda banale ma, sai com’è, sono abbastanza curiosa di sapere come ci vedono all’estero.

Cosa vuoi che ti dica? Forse è banale anche la risposta ma i primi tempi tutti mi chiedevano della situazione politica, di come fosse possibile avere tenuto per vent’anni certi personaggi alla guida del paese. E non era piacevole sentirsi fare certi commenti.

Quindi di tornare in Italia non se ne parla neanche?

Assolutamente no. Devo dirti che, quando per questioni di visto siamo dovuti rientrare dopo tre mesi, eravamo anche a disagio. Avevamo paura che, per qualche motivo, l’ufficio dell’immigrazione non ci prolungasse il visto e ci costringesse a restare in Italia. Ormai, soprattuto per i miei figli, questa è casa nostra. Anche se continuiamo ad essere e a sentirci italiani. Io e mio marito, per esempio, con i nostri figli parliamo italiano e non inglese. Non vogliamo che perdano il contatto con la loro lingua e la loro storia. Essere qui in America per loro non deve significare cancellare la loro identità, ma confrontarla con quella altrui. Questa è la vera opportunità.

Senti, mi dici un’ultima cosa? Qual è una delle qualità maggiori che riconosci agli americani?

In assoluto la loro capacità di reinventarsi professionalmente. Qui non esistono tutte le tutele sindacali che ci sono da noi, e questo sicuramente rende tutto più difficile. Ma in America, se un manager perde il posto di lavoro, cerca di riciclarsi con qualsiasi altra mansione, non rifiuta un lavoro solo perché, magari, non è all’altezza di quello precedente. È proprio una questione di mentalità: l’importante è lavorare e poter mantenere sé stessi e la famiglia, se c’è. Non è facile da capire per noi ma è una cosa che apprezzo moltissimo. Forse dipende anche dal fatto che sono abituati alla mobilità in tutti i sensi: in America è normale che una persona nata a New York vada a lavorare a Los Angeles. E credo che questa predisposizione agli spostamenti geografici si sia tradotta in una predisposizione alla mobilità di testa. E questo, nonostante tutto, mi piace moltissimo degli americani.

Per contattare Renata potete scrivere al suo blog:

http://ita2usa.blogspot.com

A cura di Geraldine Meyer