La storia di Bruna, giornalista di cronaca nera

Ho uno dei lavori più belli del mondo. Anni fa, alcuni ragazzi italiani sdraiati a prendere il sole sulla spiaggia di Barcellona, si sono seduti intorno a me chiedendomi di raccontare il caso Cogne, e più raccontavo più gente si avvicinava, accomodandosi con le gambe incrociate. Alla fine c’erano oltre trenta persone ad ascoltare e chissà se erano tutti italiani.

Una sera in un ristorante di Milano stavo parlando con un amico del caso delle Bestie di Satana e la mia voce era forse un po’ alta, o il locale piccolo, tant’è che tre tavolate intorno alla nostra hanno cominciato a voltarsi dapprima solo con le spalle poi con tutto il busto e alla fine hanno quasi girato la sedia per ascoltare meglio. Il giorno dell’eclissi solare totale ero a Stromboli, seduta su un muretto sotto il vulcano che eruttava e ho cominciato a raccontare di quella volta che ero in Sardegna sulla linea del fuoco con la guardia forestale, a un metro da uno sbarramento di fiamme che tagliava in due la strada a tutti gli sconosciuti che erano lì con me e se la facevano un po’ sotto per la paura del vulcano.

Un’altra volta mi hanno invitata a una festa e tutti si annoiavano, me compresa, allora ne ho approfittato per cercare di risolvere il caso di una strage familiare che mi spappolava il cervello da mesi. Sulla strage che mi ha portata a Santo Domingo ho lavorato un paio d’anni ed è stato il mio vero battesimo della nera.

Quando sono tornata da lì, tre giorni dopo essere partita, con un documento rubato dalla borsa di una prostituta, minacciata di morte e scappata a gambe levate col primo volo, ho pensato che tutto il resto della mia vita sarebbe stato in discesa. Non sapevo che mi sarei trovata, molti anni dopo,  faccia a faccia con un assassino tunisino, a casa sua, con la porta chiusa a chiave, in un abbaino a metà strada tra Cremona e Mantova. E non sapevo neppure che un giorno sarei finita a indagare su due ragazzi morti misteriosamente sulla Cisa in mezzo ai boschi. Ho sempre indagato da sola, con la mia auto un po’ sgangherata e senza mai un ricambio per le partenze improvvise. Come il caso Gatti, lo squartatore degli zii di Brescia.

Quella è stata l’unica volta che ho visto il sangue colare dal mio soffitto di notte e ho dovuto dormire con la luce accesa. Forse però, emotivamente, è stato più pesante seguire cinque delitti di donne in pochi mesi, tra cui quello di Chiara, a Garlasco. Di lei mi sono occupata per due anni perchè avevo una voglia matta di sbattere in cacere il suo bastardo assassino. Dopo è arrivata Federica e il suo povero cadavere nudo sull’erba di Lloret de Mar, in Spagna. E in mezzo, gli scomparsi, i ragazzi morti in incidenti stradali, gli usurai e i mafiosi ergastolani. Alcuni dei  pezzi più belli che ho scritto sono stati  sulle Torri Gemelle, lo stesso giorno dell’attacco, mettendomi in chat con i sopravvissuti, sullo Tsnunami, parlando al telefono nello Sri Lanka, la strage dei bambini in Cecenia,  il rapimento di Carolina in Afghanistan.

Ho passato 25 notti sotto casa sua e sono riuscita a scrivere della sua liberazione due ore prima di partire per l’Argentina. Non volevo andarmene senza potermene liberare anch’io e ho avuto fortuna.  Mi sono ficcata senza tregua nel caso dell’aereo scomparso di fronte all’isola di Los Roques, in Venezuela, per aiutare le famiglie italiane e ho smesso solo quando ho avuto la certezza che non l’avrei mai potuto ritrovare. La tragedia di Linate mi ha permesso di raccontare un dolore che ancora non conoscevo e quel giorno il mio capo mi ha detto che io sapevo scrivere del dolore. Quella pagina di giornale è stata appesa dietro la sua scrivania per oltre un anno. In tutti questi anni di lavoro fuori orario, pericoloso e ricco di notizie in esclusiva, ho ricevuto pochissimi complimenti e nessuna qualifica. In cambio sono stata ricoperta di cattiverie dai colleghi e di pesantissimi stress emotivi.

Quando sono tornata dall’Argentina a ottobre dello scorso anno ho fatto il bilancio della mia vita e del nuovo giornalismo, non più di indagine, ma di banalità superficiali scritte tanto per scrivere. Quelli come me, che cercano gli assassini per sbatterli in carcere, non esistono più nel nostro mestiere. Quelli come me, che trascorrono la vita pensando che scrivere su un giornale (nel mio caso su tre) sia una grande responsabilità e non un piacere, esistono sempre meno.

Mi si è rotto qualcosa dentro l’anima. Ho pensato di aver buttato via tutta la mia vita per niente. Ho avuto la sensazione che in Argentina stessi meglio perchè ero lontana da questo duro conflitto lavorativo, da un ambiente in cui non mi riconosco più, e che negli ultimi due anni mi ha letteralmente massacrata senza neppure difendermi dalle minacce dei pazzi. I carabinieri mi hanno dato sempre aiuto quando l’ho chiesto, il mio giornale mai.  In questa solitudine ho maturato la decisione di lasciare quello da cui  non ruscivo a staccarmi: scrivere le storie oscure della gente che vive al confine tra la vita e la morte e prima o poi finisce male.

Me ne vado dal giornale per alcuni mesi, col paracadute, sapendo che potrò rientrare a gennaio. Non ho invece nessun paracadute su quello che lascio, la nera e l’indagine nazionale e internazionale,  perchè sulla mia scrivania, a lavorare con il vicedirettore, non tornerò più.  Non so neppure cosa e chi troverò al mio rientro perchè il giornale è in profonda ristrutturazione e anche i vecchi colleghi con cui ho passato metà della mia vita, le sere, i sabati, le domeniche e i turni di notte, se ne andranno in pensione mentre io sarò via.  Il quotidiano è una macchina infernale, che si ama e si odia  molto, che ti dà la vita e te la toglie nello stesso tempo. Ultimamente mi sentivo morire a entrarci. Dovevo uscirne.

Parto per l’Argentina il 29 aprile, l’unico luogo che mi ridà la carica e l’autostima che ho perduto. Mi fermerò solo 42 giorni per ora, ma lascio aperte le porte del destino e stavolta non lo costruisco più. Verrà quello che deve venire.

Bruna Bianchi

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