Vita da eremiti

Di Andrea Ponso

Sappiamo tutti, credo, che il tempo degli eremiti e dei monaci è segnato da regole e ordini ben precisi e apparentemente ripetitivi ma, nello stesso tempo, si ha sempre la tentazione di vederci essenzialmente un “tempo perso”, un debito di vita quasi incomprensibile – uno spreco, insomma.

Se ragioniamo all’interno delle categorie che ci sono più vicine, quelle del profitto e dell’economia, possiamo dire che si, è davvero un tempo “sprecato”.

Ma non possiamo dimenticare che tale “spreco” è anche la caratteristica di una cosa molto comune in tutte le società, e ancora anche nella nostra: è il dono, qualcosa che non si riesce mai ad accomodare in tutto e per tutto all’interno dell’economico in senso stretto.

Anche il tempo dell’eremita è tempo donato: è la scoperta di un tempo e di una vita che ci è data gratuitamente, ma anche il senso di un’esistenza che è donata da parte dell’eremita all’altro, sia esso Dio, il creato o l’altro uomo.

Potremmo dire che solo donandosi si riceve in dono tutto, al di là delle dinamiche dello scambio e del dare avere/economico, diventando liberi davvero.

È, parimenti, la scoperta e la pratica, per niente facile e, anzi, quasi sempre frutto di continuo esercizio, di un abbandono fiducioso alla vita e alla creazione.

Privarsi di tante cose apparentemente essenziali è segno di gioia e di ottimismo, di fiducia nei confronti dell’esistente. Non è certo pacifico lasciare le comodità e tutto quello che ci è “utile” per vivere nella gratuità pericolosa e desertica della libertà da conquistare e praticare incessantemente.

Potremmo anche dire, usando una parola a noi oggi molto vicina, che si tratta di una “vacanza”, di una vacatio che diventa vocazione, richiamo all’essenziale – e che può essere non solamente temporanea, ma continua. Se proviamo a leggere tutto questo dalla prospettiva delle tradizioni religiose, ci possiamo appoggiare all’idea del sabato ebraico: a quella cessazione di ogni attività che non è fine a se stessa, ma che diventa invece memoria di libertà e relativizzazione di ogni impegno, lavoro, occupazione, per lasciar essere il tempo e la vita.

Nella teologia biblica, è Dio per primo che si ferma al sabato, dopo la creazione: si ferma, si ritira, potremmo dire, per lasciar essere.

Come possiamo vedere, anche questa verità teologica e di fede può diventare preziosa per tutti, perché ci libera dagli idoli dell’efficienza a tutti i costi, da un lavoro che diventa alienante e contrario alla vita e alla libertà, da una realtà che vogliamo a tutti i costi, e con fatica, controllare e gestire – procurandoci, il più delle volte, solamente affanni; ci stana anche dai momenti in cui lo stesso fervore, la stessa passione e lo stesso entusiasmo, rischiano di diventare ingranaggi perfetti di una catena infinita di montaggio … l’obbligo dell’essere sempre attivi, felici, atletici, pronti e “al passo con le mode e con i tempi”; quante volte, dopo una vacanza, torniamo più stanchi e tesi di prima? Quante volte gli incontri, gli appuntamenti cosiddetti mondani, diventano semplice routine difficile da sopportare, obbligo, più che gioia del vero incontro con l’altro?

Sempre dalla prospettiva cristiana e biblica possiamo fare nostra anche l’idea e la pratica di un tempo vissuto in modo messianico. Cosa significa? Le prime comunità cristiane, e parimenti quelle eremitiche e monastiche, vivevano la loro esistenza nella convinzione dell’imminenza del ritorno del Figlio e della fine dei tempi.

Tutto questo, nei casi migliori, lungi dal portare alla visione catastrofica e distruttiva del mondo, frutto di una lettura completamente distorta dell’Apocalisse giovannea, inaugurava un tempo di purificazione e di festa, di attesa attiva e propositiva, per entrare già dal presente nel dono della pienezza dei tempi, quando Dio sarà “tutto in tutti”.

Solo in questa prospettiva possiamo cercare di comprendere fenomeni a noi ormai forse lontani come la verginità, o la preghiera continua o, ancora, lo stesso “ritiro” dal mondo in vista della preparazione del suo abbraccio completo.

Ma a noi, oggi, anche al di là della fede, cosa può dare questa visione? Sicuramente la grazia del distacco dalle cose non essenziali, dai bisogni indotti, dal nostro continuo preoccuparci del futuro o del passato: paradossalmente, insomma, il tempo messianico interrompe la catena dei bisogno e degli affanni quotidiani – senza cancellarli, ma riportandoli alla loro giusta misura. Le parole evangeliche ci dicono che “il sabato è fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato”.

“Perdere tempo”, insomma, è forse l’unica modalità di viverlo davvero.

Questo non trasforma la vita dell’eremita in un’esistenza angelicata e disincarnata, non lo sottrae al presente, ma, come abbiamo visto, ve lo restituisce pienamente.

Non si tratta più di vivere nel tempo come inesorabile kronos, ma in un tempo che diventa kairos, presente in atto della salvezza o, comunque, della chiarezza. In questo tempo, l’eremita non si esime dal lavoro, dal suo sostentamento materiale – e nemmeno dai tempi fisiologici, potremmo dire, del suo corpo, e da quelli ecologici della natura.

Anzi, tutto l’ordine della sua vita dovrebbe essere armoniosamente legato a questi cicli che diventano simboli, ma senza venirne imprigionato. Le ore del lavoro e della preghiera sono infatti sempre modulate con il ritmo delle stagioni, della luce e della notte, del riposo necessario e della fatica dello studio e del lavoro.

Persino i pranzi e le cene, quasi sempre, anche nelle comunità cenobitiche, consumati nel silenzio, sono in fondo una santificazione e un gustare in profondità i frutti del tempo e delle stagioni che ci vengono offerti sulla tavola. Pensiamo che mangiare in silenzio sia triste, perché il banchetto è da sempre gioia e condivisione – ma può darsi una condivisione e una gioia anche nel gustare e apprezzare i frutti della terra, del tempo e del lavoro, in quel silenzio che diventa esso stesso ascolto e meditazione, ringraziamento e gioia.

Quante volte mangiamo di corsa, quasi per obbligo – oppure smodatamente, senza nemmeno accorgerci dei gusti, degli odori, della consistenza fisica e dei colori di quello che passa nella nostra bocca e nei nostri sensi?

Quante volte dimentichiamo, così, la creazione? Tutto è fast, e tutto scompare senza lasciare traccia: il tempo, e i tempi, le stagioni e le gradazioni dei gusti – senza contare il senso di gratitudine per quello che possiamo mangiare – tutto viene cancellato e cannibalicamente abolito proprio per mezzo dei sensi, che dovrebbero essere invece gli strumenti privilegiati della pienezza di vita.

Ma come è possibile, allora, conciliare questa pratica della libertà con la rigidità di una regola, di una pratica che continua quasi sempre identica a se stessa nella giornata dell’eremita?

Anche qui, potremmo dire, come abbiamo fatto con il sabato biblico, che “la regola è fatta per l’uomo, e non l’uomo per la regola”: essa, insomma, è aiuto e sostegno, se vissuta come scelta libera.

Del resto, non mancano mai, nelle varie regole monastiche ed eremitiche, precise disposizioni che vanno in questa direzione fondamentale: tutte, sono volte a non rendere “pesante giogo” le disposizioni disciplinari e l’ordinamento dei tempi; si va dall’attenzione per i fratelli meno “forti”, alle disposizioni sul sonno e sul riposo, sui digiuni e sulle veglie, con particolare attenzione all’integrità e alla crescita armoniosa del monaco nel corpo e in tutta la sua totalità.

L’eremita, insomma, non è un “atleta” nel senso eccessivo del termine, uno che deve superare record e stabilire primati: al contrario, egli è colui che cerca l’armonia totale, l’unificazione del bene, e non la distruzione e la mortificazione della vita.

Un’ultima prospettiva sulla quale conviene riflettere, e che può aiutarci nella comprensione dei tempi eremitici, è quella liturgica e rituale. Potremmo anche chiamarla ritmo della continuità e dell’interruzione.

cambio vita

Ci sarebbe molto da dire, ma basti solo questo, semplificando: la continua ripetizione di un rito, che senso avrebbe se fosse solo ripetizione? Perché il rito si ripete? Proprio per il fatto che tale continuità apparentemente monotona fa emergere la differenza, la novità, il mistero, proprio laddove non riusciamo a vederlo e a viverlo.

Il rito, come la vita eremitica e monastica, si nutre di cose molto concrete, tratte dalla vita di tutti i giorni: la parola, il cibo, i movimenti del corpo, l’alternanza di luce e buio, di giorno e notte, la percezione dei sensi e l’uso e le abitudini giornaliere – e, proprio in questo, segna una discontinuità che apre all’inaudito, ci porta in una prospettiva diversa eppure quotidiana che, teologicamente, è quella sacramentale.

Ci si apre così alla meraviglia e al mistero del lavoro, dello studio, della meditazione, dell’uso che facciamo del tempo e dello spazio; si tratta di una concentrazione, di un’attenzione vigile e chiara di ciò che è, qui, ora.

La vita rimane tale, eppure, tale concentrazione la apre dall’interno, mostrandone l’inafferrabilità e la trascendenza. Walter Benjamin ha scritto che l’attenzione è la forma più alta di preghiera; credo che possa valere anche per ogni dimensione della solitudine, anche al di là del religioso in senso stretto.

L’unica sicurezza dell’eremita, in fondo, è questa: ma è il passo che può condurre in ogni luogo e tempo.

Non è possibile terminare questi appunti senza considerare, almeno per un attimo, quella concentrazione di tempo come fine e compimento insieme che è la morte. Niente di cupo o vagamente depressivo in questo.

Piuttosto, si tratta di fare esperienza di piccole morti quotidiane (e non solo di quella biologica), che capitano a tutti nella vita: la perdita di un amore, la fine di una relazione, di un lavoro, l’impossibilità di essere come si vorrebbe e molto altro. Come si pone l’eremita di fronte a tutto questo? Direi nella stessa maniera dell’attenzione richiamata prima, senza morbosità e senza esaltazioni: si prende coscienza della nostra finitezza sociale, amorosa, di riuscita nel mondo – del fatto che non siamo noi i “padroni” e quelli che possono controllare ogni cosa.

Ma, ancora una volta, anche questa è una liberazione: dalla “gara” della vita, dalla fatica della propria auto-affermazione, dal tempo vissuto come una competizione senza riposo e senza tempo. In fondo, anche nella tradizione cristiana, quello che si chiama “peccato” nasce sempre dalla paura della morte: tutti i nostri affanni sono profondamente incatenati e mossi da questo terrore.

L’eremita, con la solitudine e la sua pratica di vita, impara ad abitare l’essenziale, ad “abbandonare il mondo” – nel senso preciso del distacco da quest’ansia di attività spesso troppo simile al dibattersi nelle sabbie mobili o a censurare la finitezza. L’eremita teme la morte, ma tale pensiero non è così forte da renderlo schiavo: al contrario, esso lo libera e lo rende leggero, anche nell’ansia e nei momenti di scoramento e disperazione.

Il tempo pienamente vissuto non può non tenere conto anche di questo. Ecco allora che “benedire” la finitezza e conciliarci con essa diventa davvero un miracolo e una gioia grande.