Un talento che gli ha permesso di ottenere una green card in America, ma che paradossalmente, in Italia non gli ha permesso neanche di essere inserito in una semplice graduatoria di istituto per insegnare in conservatorio. Ora Simone, oltre ad insegnare pianoforte, a dirigere un coro e a comporre musica, si dedica anche al suo blog: www.artistitalianinamerica.com, un luogo virtuale in cui mette a disposizione di tutti le nozioni risultanti dalle sue esperienze in materia di immigrazione, spiegando in italiano e con chiarezza ciò che bisogna sapere circa le regole e leggi di immigrazione negli Stati Uniti.

Simone Ferraresi usa

Simone, cosa si prova ad essere definito come “uno dei migliori pianisti della tua generazione”?

Quando alcuni anni fa il pianista e musicologo austriaco Paul Badura-Skoda scrisse queste parole, ne andai fiero. Ora non mi ci riconosco più, perché so bene che ci sono tantissimi bravi pianisti nel mondo, sia della mia generazione sia di quella successiva.

Cosa significa essere un pianista di musica classica in Italia e cosa significa invece esserlo all’estero?

Un pianista di musica classica ha un numero abbastanza limitato di mestieri disponibili: concertista, insegnante, accompagnatore al pianoforte, sono i principali. Riuscire nell’ardua impresa di fare il concertista come lavoro principale è estremamente difficile in qualsiasi nazione. Invece sono sicuro che diventare professore di pianoforte sia più facile negli Stati Uniti rispetto all’Italia. Non so come sia negli altri Paesi, ma sospetto che sia meno difficile che in Italia, dove è in vigore un obsoleto e, per certi versi ingiusto, sistema di assunzione. Negli Stati Uniti in generale è molto più facile trovare lavoro una volta compiuti gli studi, perché l’ambito accademico è strettamente collegato con il mondo lavorativo.

Il tuo lavoro ti ha portato a girare per il mondo, perché alla fine hai scelto di stabilirti a New York?

Prima di venire a New York provai a cercare lavoro come insegnante di pianoforte, oltre che in Italia, anche in Inghilterra e negli Stati Uniti. Mi ricordo che mandai il mio curriculum ad una cinquantina di scuole in Inghilterra e a venti università americane e le risposte furono tutte uguali, ovvero che non avevano un posto disponibile in quel momento. Cercare lavoro standosene comodamente seduti a casa nella grande maggioranza dei casi non funziona. Bisogna andare fisicamente sul posto e bussare direttamente alle porte per trovare lavoro, come feci in due casi: San Francisco nel 2002 e New York nel 2005. A San Francisco trovai un posto di insegnante, ma decisi che non faceva per me. A New York invece trovai lavoro dopo pochi giorni dal mio arrivo e questa volta pensai che valesse la pena restare. Riassumendo, settanta curriculum mandati dall’Italia non hanno prodotto nessun risultato, mentre due viaggi hanno prodotto un posto di lavoro ciascuno: questo sta a significare quanto sia importante essere presenti sul posto quando si cerca lavoro.

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Di cosa ti occupi a New York?

I miei impegni abituali sono: insegnare pianoforte, studiare in preparazione di concerti, dirigere un coro e comporre musica. Qualche volta trovo anche il tempo di registrare un album, come ho fatto quest’anno con il mio DVD “Simone Ferraresi plays Beethoven and Chopin”, prodotto in parte grazie a un crowdfunding.

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Il bello e il brutto di vivere in una metropoli come New York…

Tra i tanti lati negativi di New York spicca la sporcizia. Penso che sia una delle città più sporche di tutto il mondo sviluppato. Poi la pessima qualità del cibo, cosa non facile da accettare per gli italiani! Ad esempio, il pane è sempre duro e gommoso, anche ricercandolo nei panifici più costosi ed eleganti (persino nelle carissime boulangerie francesi). I dolci americani sono sempre eccessivamente dolci. Per fortuna si trovano pasticcerie francesi e giapponesi che sono più vicine ai gusti italiani. Compro soprattutto cibo importato, tranne carne, frutta e verdura. Queste ultime a noi italiani risultano quasi tutte prive di sapore. Un’altra cosa che non mi piace di questa città è l’eccessiva disparità sociale. A New York alcuni concetti che in Italia sono cosa scontata e a cui non ci si fa nemmeno caso, come la cura dei dettagli, il senso del bello, la qualità del cibo e dei materiali, sono solo cose per ricchi, ma d’altra parte capisco anche che gli italiani sono viziati, perché abitano in un posto eccezionale, circondati dalla bellezza, che per loro rappresenta la normalità. Tra i lati positivi di New York invece c’è l’energia tipica di una metropoli che ti trascina nel suo ritmo frenetico e ti stimola a dare il massimo di te. Specialmente per uno che viene da una città piccola è davvero una fantastica opportunità per arricchire la propria persona ed il proprio carattere. Poi, la multiculturalità e il melting-pot rendono New York un posto dove tutti si sentono a casa. Qui nessuno si sente straniero perché questa è una città-pianeta, con comunità di tutte le nazioni esistenti. New York è quasi la realizzazione di un’utopia: tutte le razze e religioni che convivono in pace.

Hai fondato il blog: www.artistitalianinamerica.com. Di cosa tratta? E da quale esigenza è nato?

Ho semplicemente voluto mettere a disposizione di tutti le nozioni risultanti dalle mie esperienze in materia di immigrazione, spiegando in italiano e con chiarezza ciò che bisogna sapere circa le regole e leggi di immigrazione negli Stati Uniti, tutte cose peraltro di dominio pubblico e reperibili su internet, ma difficili da interpretare perché scritte in inglese e con molti termini legali. Ho deciso di aprire il blog anche perché in seguito ad un’altra intervista che rilasciai tempo fa per VivereNY (http://www.vivereny.it/esperienze/simoneferraresi-o1), cominciai a ricevere tanti messaggi di italiani che mi chiedevano come ottenere un visto per lavorare in America. Alcuni di loro sono venuti a New York e li ho aiutati a fare domanda per visto O-1. Nel mio blog infatti racconto alcune di queste storie andate a buon fine.Sono molti gli italiani che ti contattano?

Ogni settimana ricevo circa una decina di e-mail da persone disposte ad andarsene dall’Italia e che chiedono informazioni sull’iter burocratico relativo alla richiesta di visto artistico.

Quali sono le domande più frequenti?

Ecco come fare per andare a vivere in America: i documenti necessari e molto altro!

Mi viene spesso chiesto come si può cercare e trovare un lavoro in America stando in Italia, domanda a cui rispondo sempre che il lavoro va cercato direttamente nel Paese dove si intende emigrare. Consiglio di venire qui come ho fatto io nel 2005, come turista, cercando di ottenere dei colloqui e fare conoscenze. Un’altra domanda frequente è quella relativa al visto O-1, alla quale rispondo con una lista dettagliata di cose da fare.

Due anni fa hai finalmente ricevuto la tanto desiderata Green Card. Che sensazione hai provato?

Di liberazione, perché non avrei più dovuto fare le pratiche per rinnovare il mio visto O-1. E anche di maggiore fiducia in me stesso, perché ottenere una green card per motivi artistici è molto difficile, a causa dei severi criteri di valutazione dei titoli. Infatti le green card come la mia, categoria per persone con “abilità straordinarie” (anche denominata “priority workers”), rappresentano la più bassa percentuale di green card assegnate. Questa la descrizione della mia categoria di green card sul sito dell’USCIS: “Individuals of extraordinary ability are considered to be the best of the best in their field and it is an eligibility category that applies to very few individuals.  Examples of who may be considered an E11 immigrant include Nobel Prize winners, notable athletes, and others who have achieved great successes in their field.” (www.uscis.gov/green-card/green-card-through-job/green-card-through-self-petition).

Cosa può offrire attualmente l’America a livello professionale?

Non saprei dire con esattezza per quanto riguarda l’America al di fuori di New York. Come dicevo prima, la cosa che mi pare funzioni bene è l’università, che funge quasi sempre da anticamera del lavoro, a differenza di quanto accade in Italia. Perciò consiglio a tutti i giovani italiani di provare a fare domanda per studiare in un’università americana o anche semplicemente per un dottorato. Molti purtroppo non hanno i mezzi economici per spostarsi fuori dall’Italia, ma bisogna considerare che molto spesso si possono ottenere borse di studio e il dottorato è pagato. Un dato abbastanza significativo che vorrei menzionare a questo proposito, letto di recente in un articolo di Severgnini sul New York Times, è che quasi 400 mila laureati italiani sono andati via dall’Italia nell’ultimo decennio.

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A te personalmente cosa ha offerto?

Gli Stati Uniti mi hanno offerto la possibilità di sviluppare la mia carriera di musicista e insegnante e hanno dato peso alle mie qualifiche professionali, un risultato esattamente opposto a quello ottenuto nel mio Paese d’origine. Ripeto, i miei titoli artistici sono stati sufficienti per ottenere una green card che rientra in una categoria denominata priority workers, mentre in Italia gli stessi identici titoli non mi hanno permesso nemmeno di inserirmi in una semplice graduatoria di istituto per insegnare in un conservatorio. Nonostante vent’anni d’esperienza come insegnante di pianoforte a livello internazionale, le commissioni che giudicano i titoli dei candidati alle cattedre di conservatorio non considerano minimamente la mia esperienza internazionale: per legge, ai fini del punteggio, vale solo il periodo di insegnamento svolto in Italia.

Secondo te cosa deve cambiare in Italia, affinchè ci sia maggior spazio per la musica classica?

Mi pare che questo sia un problema non solo italiano, ma anche del resto dell’Occidente, cosa paradossale, perché la musica classica è nata in Europa. In questo periodo storico la musica classica trova più spazio nei Paesi dell’est asiatico, sia a livello commerciale che educativo. Questo è evidente persino all’interno degli Stati Uniti, dove una gran parte degli studenti di conservatori e scuole di musica vengono dall’est asiatico o sono di origine asiatica. Per quanto riguarda l’Italia, mi pare che la situazione sia più grave che altrove. Si dovrebbe trasmettere di più la cultura musicale generale; la lettura della musica sin dalle elementari e storia della musica a partire dalle scuole medie, dovrebbero essere materie obbligatorie.

Cosa consigli a tutti coloro che desiderano intraprendere la carriera di musicista all’estero? Quale pensi che sia il giusto approccio?

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Prima di tutto, imparare un’altra lingua a livello avanzato. I ragazzi italiani sono arretrati rispetto agli altri Paesi europei per quel che riguarda la lingua straniera e la mobilità internazionale e questo li penalizza molto. Consiglio ai giovani musicisti di informarsi circa le regole di ammissione a conservatori e accademie musicali nel mondo. Di essere curiosi in questo tipo di ricerca e di non fermarsi ai confini europei. Di non farsi scoraggiare davanti alla difficoltà economica che si presenta quando lo studente desidera studiare all’estero. Spesso questa paura è dettata dal non sapere come funzionano le cose, ad esempio dal non essere al corrente che esistono vari tipi di borse di studio, assegnate non solo dalla scuola dove si vuole entrare, ma anche da associazioni e fondazioni che sostengono l’educazione a livello internazionale. Inoltre uno studente all’estero può anche trovare un lavoro che lo aiuti a mantenersi. Tanti fanno questo con grande determinazione.

Tornando al tuo lavoro, quali sono i tuoi progetti nell’immediato? E quelli futuri?

Proprio in questi giorni, sto fondando un’associazione no-profit qui a New York che si propone di lanciare giovani pianisti nella scena internazionale, mettendoli in contatto con grandi maestri e pianisti di fama mondiale e offrire borse di studio con la finalità di studiare ed esibirsi all’estero. Il primo evento organizzato dall’associazione sarà il primo Ferrara International Piano Festival che si svolgerà a Ferrara, mia città d’origine, nel luglio 2014.

Un’ultima domanda: torneresti in Italia se ci fossero le giuste condizioni?

Penso che non sarebbe facile tornare a viverci stabilmente, perché ho una famiglia piuttosto internazionale. Mia moglie è cittadina giapponese e mio figlio che sta per nascere avrà triplo passaporto (americano, italiano, giapponese). Sia per questo motivo che per il mio tipo di lavoro viaggio spesso, per cui l’idea di un solo Paese dove stare per tutta la vita non fa per me. Penso inoltre che il concetto di nazionalità al giorno d’oggi sia un limite che sottrae spazio all’iniziativa professionale. Probabilmente terrò la nazionalità italiana per sempre (non mi interessa ottenere la cittadinanza americana), ma questo non vuol dire che io debba per forza tornare in Italia. Dopo quasi nove anni a New York, la parola ritornare non significa molto: quando sono in Italia per vacanza penso che devo ritornare a New York perché ci abito e lavoro. La mia priorità è svolgere il mio lavoro, quindi ovunque io mi trovi o mi troverò in futuro per lavoro, quello sarà il posto che susciterà in me la sensazione del “tornare”.

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