24 East è un libro per Viaggiatori, ossia per coloro i quali riconoscono nella strada ed in quello che ci deve insegnare il vero scopo del viaggio. Ecco ad esempio come nel racconto chiamato “Lo straniero”: “Ho capito subito di essere a mio agio nel ruolo sempre cangiante dello straniero: colui che viene da un posto mistico e quasi sempre lontano dai propri piedi che si chiama altrove; colui che sembra sempre di passaggio, di corsa, fuori posto e con le radici in vista. Lo straniero è come un fiore in un vaso, lo puoi portare in giro, mettere al sole, nascondere e annaffiare.

 Racconti dal Sud-Est asiatico

L’essere straniero, se fosse un mestiere, sarebbe un mestiere pieno di alibi. Da straniero è più facile accettare di non essere capiti, di essere l’altro, di non avere che una valigia, di essere sempre lontano da qualcosa, di dover tornare a casa, di essere assenti, di non parlare la lingua, di scoprire di essere se stessi, di camminare soli anche quando non c’è vento. Quando si vive nel proprio contesto/paese è un po’ più difficile riconoscersi in un ruolo ma da straniero ci viene garantita almeno una posizione, un punto di vista. Non resti fuori, emarginato, perso nelle periferie e con le scarpe sporche perché da un momento all’altro puoi alzarti e dire: “Fermi tutti! Io sono lo straniero!”. Ma non è certo un ruolo tutto rose e fiori.

Ogni straniero poi si porta addosso una maledizione: la maledizione degli stereotipi. Così quando meno ce lo aspettiamo comincia la fiera delle idiozie, dei razzismi, dei gesti, dei modi di dire, dei “voi avete perso questa o quella finale”, o del “ma è vero che le ragazze…” e via su su fino all’essere identificati con il proprio stereotipo che è come un fantasma di voi stessi che nemmeno avete mai potuto invitare a cena. Eppure lui accompagna, disturba, si infila tra i discorsi come un languido tormento.

 Racconti dal Sud-Est asiatico

A volte poi succede che quel fantasma aiuti ad aprire qualche porta, ad essere sì il diverso, ma in maniera affascinante. Quel fantasma è la rappresentazione di un filo che corre indietro nel tempo fino a toccare le nostre radici ed ha a che fare con un’annosa questione: l’Appartenenza. I passi che qualcuno ha fatto prima di noi, l’essere nati in un posto riconoscibile, di avere una tradizione, una questione di discendenza e di poesia. Ci vuole arte per imparare ad essere lo straniero, nel capire e sopravvivere con il minimo sindacale delle informazioni, nel vivere col peso della distanza ed il profumo dell’assenza. Ci vuole arte ad essere la propria isola in mezzo ad un mare da decifrare. Ci vuole arte a cercare dei punti di riferimento pur essendo perduti, perché lo straniero è e sempre sarà un fiore in un vaso, un vaso scomodo e fragile che nonostante tutto e tutti deve divenire casa per le nostre radici, porto a cui tornare, campanello a cui suonare.”

Il libro scritto da Carlo Convertini provoca alcuni effetti collaterali. Ad esempio spinge il lettore a mettersi in discussione ma soprattutto a mettersi in viaggio, come se si dovesse in qualche modo contribuire a quelle storie aggiungendovi le proprie partenze ed i propri arrivi.