E’ così che il cancro ha cambiato Giacomo Cardaci, 23 anni, iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza e  autore del libro “La formula chimica del dolore”, edito da Mondadori. Un testo prezioso per chi soffre, steso in una camera sterile d’ospedale e pubblicato per un atto d’amore verso gli altri malati.

Cardaci, La formula chimica del dolore

“L’ho scritto – afferma l’autore – perché cercavo un rituale magico con cui esorcizzare il terrore, ma anche perché volevo incitare altri soldati a combattere  contro  quel nemico impietoso, che è il cancro. Cercavo di iniettare loro un farmaco per l’anima, visto che i medici curano solo il corpo”. E l’obiettivo è stato centrato, anche perché il libro non ha sfumature ideologiche. “Scrivendo – aggiunge – non ho imprecato contro la Chiesa, Dio, i medici indifferenti o pasticcioni, la malattia muta. Non ho parlato del dolore come di una punizione del demonio. Avrei potuto farlo, ma ho preferito mettere a nudo senza false ipocrisie cosa possono diventare un uomo, un corpo, un’anima, in un letto d’ospedale, nella lotta contro un avversario talvolta invincibile. Terrificante. Che oggi, guarito, pretendo venga maneggiato con cura”.

Cosa intende?

Che spesso si parla di cancro senza rispetto né per il malato, né per la sua malattia. Lo si fa, per esempio, in alcune trasmissioni televisive, in cui il malato viene dato in pasto alla curiosità morbosa dei telespettatori, magari tra l’esibizione di una velina e la dichiarazione di un calciatore.

Oggi non si sente più fragile dopo aver alzato i veli sulla sua esperienza e la sua vita?

Ho corso il rischio di diventare più vulnerabile, ma sapere che la mia storia, scritta mentre assistevo alla caduta di tanti commilitoni e in una condizione di estrema impotenza, ha toccato il cuore di tanti, un po’ mi rafforza.

Come l’ha cambiata la malattia? E cosa pensa le abbia rubato?

Il  dolore non ti rende migliore, né ti fa sentire più forte. Non ti insegna a  rallegrarti delle piccole gioie di tutti i giorni. Al contrario, annienta il finto equilibrio che hai costruito prima di ammalarti, amplifica la paura di vivere, smonta le impalcature su cui credi poggi tranquilla la tua esistenza. Però, ti rende più profondo. Ti regala la conoscenza più intensa di te stesso e degli altri. Ma conoscere se stessi non significa conoscere la propria felicità.

No?

No, conoscere se stessi è un passo avanti in un processo che può anche condurti a sapere cosa ti dà benessere. Conoscersi non significa in modo automatico amarsi. La malattia mi ha solo dato delle lenti a contatto nuove per vedere meglio il mondo.  In genere, il dolore sviscera la capacità di essere più pazienti e generosi con se stessi. Aiuta a comprendere la nostra vera sostanza, al di là delle false apparenze, di fronte alla paura e al pericolo.

Dunque, non crede a chi dice che, dopo aver provato un dolore tanto profondo, ha imparato a vivere in modo più pieno la vita! “La vita- fa capire nel libro- è meravigliosa, ma si può arrivare a questa conclusione anche senza passare dal dolore”.

Sì. Dopo una malattia, un trauma, un lutto, al massimo si diventa più saggi, si conosce meglio se stessi e l’altro. Il dolore è una sorta di sesto senso, un veicolo per diventare più profondi. Tante volte è più facile conoscere l’altro in un abbraccio o in uno sguardo di dolore, che ridendo, in una serata in discoteca. Dopo la malattia, ripeto, non si è più felici. Anzi, si ha più paura di vivere e soffrire ancora. Cadono le certezze che avevi e ti senti solo. Per essere felici non si deve passare per forza dal dolore. Oggi io non mi sento più felice.

Allora, Filippo, suo protagonista, non ha rispettato il patto con Gigetto, nome che lei usa per indicare il cancro. Nel libro il giovane  promette di essere sempre felice, di una felicità anche non naturale, in cambio della guarigione.

Sì, Filippo non riesce a stare ai patti. Troppo complicato!

Anne Ancelin Schutzenberger dice che ci si ammala e non solo di cancro, perché ereditiamo dai nostri antenati lutti, dolori, malattie che rimangono per anni, anche secoli, non detti. Non elaborati. Aggiunge che molte volte chi si ammala ha più paura di vivere che di soffrire. E preferisce rimanere a letto che alzarsi, combattere e affrontare i problemi.

Il dolore fisico è segno di una disarmonia della psiche. Credo che chi si ammali nell’anima con il suo dolore voglia in qualche modo richiamare l’attenzione degli altri su di sé. Ma non credo che questo valga per il cancro. Comunque, il nostro fisico parla in modo chiaro della nostra psiche. La rivela.

Ha mai provato rabbia, rancore,  nei confronti delle persone sane?

Guardi, non sono riuscito mai a provare rabbia, a sbattere in faccia  a chi mi stava vicino e amavo il mio dolore. Anche ora vorrei arrabbiarmi, gridare, piangere, e non riesco a farlo. Ed è sbagliato fare gli eroi quando si sta male. O assumere un’aura angelica. Si corre il rischio di mandare messaggi sbagliati a chi si ama, di non essere compresi e assecondati. Quando non ci si arrabbia o si piange, o si grida nel momento opportuno,  si rischia di farlo dopo  con le persone che si amano di più e in modo spropositato. Certe paure represse tornano e in modo più vigoroso.

La scrittura non le basta a scaricare le sue paure e la sua rabbia?

Scrivere il libro mi è servito a rielaborare in modo razionale il mio dolore. Ma avrei bisogno di sfogarmi in modo più diretto, viscerale, passionale.

Nel libro ha scritto che non c’è una formula chimica del dolore. Ma esiste quella della felicità.

Sì, è così. La felicità in modo assoluto e ampio non esiste. Nella nostra vita esistono piccoli atomi di benessere. E spero che il mio libro riesca a trasmetterne almeno uno.

Dice che vorrebbe emigrare all’estero per farsi una famiglia.

Sì, l’estero mi attira. Ma penso all’estero, perché vorrei farmi una famiglia. Sono, però, indeciso. Ringrazio gli italiani, che mi hanno curato e permesso di pubblicare i mie due romanzi con una casa editrice molto importante, ma il sistema Italia non tutelerebbe né dal punto di vista legale, né da quello morale la famiglia che vorrei mettere su con un mio eventuale compagno. Non vorrei essere ingrato con il mio Paese, ma, negandomi una tutela legale, disinteressandosi alla mia vita affettiva, l’Italia nega anche una forma di protezione morale al mio progetto. Mi lascia indifeso, soprattutto ora che ho scoperto quanto fondamentale nella vita e nella malattia sia la famiglia.

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Giacomo Cardaci

Intervista a cura Cinzia Ficco