Italia: un Paese con difficoltà di integrazione?

Cosa sta succedendo al nostro paese in termini di ospitalità verso gli stranieri? Raccontiamo sempre storie di persone che l’Italia la lasciano per costruirsi nuove opportunità all’estero; ma cosa sappiamo di chi l’Italia l’ha scelta invece per rifarsi una vita migliore di quella vissuta nei paesi d’origine? L’integrazione è semplice o no? Oggi raccontiamo la storia di Alì e del suo incontro dolce amaro con il nostro paese; forse più amaro, o meglio amareggiante. Ciò che colpisce di questa storia è il tono per nulla rancoroso con cui ci viene raccontata e il grandissimo amore che Alì continua a provare per l’Italia.

Integrazione in Italia

“Sono arrivato a Lamezia Terme nell’89 – ci racconta Alì con il suo perfetto italiano e un accattivante accento francese – per cercare lavoro come elettrotecnico, quello per cui avevo studiato nel mio paese, il Marocco. Il clima che trovo, se ci penso adesso, mi sembrava così diverso. Condividevo l’appartamento con una anziana signora che divideva con me tutto ciò che poteva. La via in cui abitavo era piccola, ci si conosceva tutti. Qui trovo anche un lavoro. Come inizio niente male direi. Un giorno il mio datore di lavoro mi dice che un suo parente, a Padova, ha una fabbrica in cui avrei potuto lavorare ancora di più e con prospettive diverse. Parto. E continua la mia vita. Lavoro, ottengo il permesso di soggiorno. Nel frattempo comincio a conoscere e frequentare alcune associazioni di volontariato che si occupano di immigrati. Fino ad arrivare ad avere la regolare residenza. Il lavoro con queste associazioni continua: facciamo mostre sull’artigianato etnico, organizziamo proiezioni di film, incontri. Insomma, nasce e cresce in me un’esperienza enorme in termini di conoscenza territoriale, culturale e di dialogo con gli italiani, privati e istituzioni.”

È in questo contesto che Alì, durante un convegno, conosce quella che, a tutti gli effetti, lui considererà la sua famiglia. “Mi hanno accolto e ospitato come un figlio, mi hanno insegnato non solo a parlare come un italiano ma a pensare come un italiano. Ero completamente integrato. Mi hanno aiutato in tutto, anche, con la loro ospitalità, a mettere da parte i soldi che poi mi sarebbero serviti per comprarmi una casa. Posso dire di avere iniziato a vivere davvero una bella vita. Continuando il mio lavoro e il mio impegno con queste associazioni e creandone anche un paio mie: una, Mano Amica che si occupava di ospitare bambini in condizioni disagiate e l’Unione Marocchino-Veneta, per sostenere e affiancare l’inserimento degli stranieri. Insomma un fermento di attività e contatti che mi hanno portato a diventare mediatore culturale. E ho cominciato anche a collaborare come traduttore per le autorità.”

Alì si sente a casa, lavora e ha una rete di relazioni che ne fanno un uomo realizzato; inizia anche un’attività sua, legata alla sua esperienza di mediatore culturale, che diventa un’agenzia, aperta in società con un avvocato. Compra anche una casa in provincia di Rovigo in cui non andrà ad abitare perché, la famiglia che lo ospita, vuole continuare ad averlo con sé. Tutto bene allora? Sì, fino ad un certo punto.

Agli inizi del 2000 l’aria comincia a cambiare, il clima che si respira nel paese comincia ad avere un sapore amaro, in cui la parola “straniero” assume connotati negativi, quasi di pretesto a cui attribuire ogni male e ogni problema. “Leggevo sui giornali articoli che non mi lasciavano tranquillo, alla televisione la criminalità veniva dipinta come esclusivamente straniera. E il conseguente clima di paura veniva cavalcato da chi si riteneva l’unico possibile difensore della giustizia e della sicurezza. La diversità comincia a venire vista come problema e non come ricchezza. Nel frattempo mi ero anche costruito una famiglia in questo paese e questo ha, forse, contribuito a farmi sentire ancora più forte questo disagio. Quando i miei figli tornavano da scuola mi raccontavano di domande strane che venivano loro rivolte, tipo “ma perché voi non mangiate questo, perché fate quest’altro, ma in Marocco girate sui cammelli etc etc”. Comincio a pensare che non sia questo il clima giusto in cui far crescere i miei figli. E comincio a chiedermi perché l’Italia abbia cominciato ad avere tutte queste chiusure nei confronti dello straniero, perché abbia cominciato a non capire quanto potrebbe essere vantaggioso, sia dal punto di vista sociale sia economico, avere una totale integrazione culturale con chi arriva da altrove.”

Eppure Alì ci tiene a dire quanto continui ad amare l’Italia, quanto non smetta di sentirsi grato per un paese che, almeno nei primi anni del suo arrivo, gli ha dato casa, lavoro, esperienza e anche tanta amicizia. “In Italia ci sono tantissime brave persone, per carità. E io ne ho conosciute tante. Solo che ad un certo punto non mi sentivo più a mio agio. Sai quante volte ho subito controlli solo perché ho la pelle scura? E nonostante potessi tirar fuori la mia bella carta d’identità per dimostrare che ero italiano a tutti gli effetti, la sensazione era sempre quella di dovermi difendere da qualcosa.”

Integrazione in Italia

Così, ad un certo punto Alì decide di andarsene da questo paese che non riconosceva più. “Senza conoscere nessuno, senza neanche sapere come potesse essere, decido di trasferirmi in Belgio. E qui, da subito, mi si presenta un mondo che mi sembra completamente diverso. Dal punto di vista umano, così come da quello semplicemente burocratico, ho trovato un contesto fatto di rispetto assoluto e di predisposizione a rendere le cose semplici. Avere la residenza, aprire un conto in banca, trovare una casa, iscrivere i miei figli a scuola, sono state operazioni che mi hanno portato via solo poche ore. Per ora devo dire che vivo in un clima in cui è assolutamente normale che io sia qui, con la mia famiglia a lavorare. Anzi a volte è talmente normale la mia presenza che mi sento quasi trasparente. Nessuno mi guarda in modo strano o dimostra una strana curiosità nei miei confronti. Sono marocchino e belga nello stesso tempo. Pensa che, siccome la prima dichiarazione dei redditi che ho dovuto fare qui è stata fatta prima che potessi iniziare regolarmente la mia attività, risultavo senza reddito. Cosa ha fatto il governo belga? Mi ha dato 2700 euro per aiutarmi; prima ancora che io, come cittadino, avessi cominciato a dare qualcosa al paese, sotto forma di tasse, il paese dava a me qualcosa.”

Ciò che colpisce della storia di Alì è il modo sereno con cui la racconta, sono le risate con cui, spesso, durante la nostra chiacchierata sottolinea ciò che ha vissuto in Italia. “Io credo di averci guadagnato. E forse non può dire lo stesso il vostro paese, che continuo ad amare profondamente. Un paese che non valorizza e integra totalmente le diverse culture, senza cancellarle, è un paese più debole di quanto si pensi.” E mentre mi dice questa cosa non posso fare a meno di pensare a quello che mi diceva Federico Rampini mentre lo intervistavo sul suo trasferimento a San Francisco. Il giornalista mi faceva notare come, per esempio, la polizia della città californiana fosse in gran arte composta da agenti di etnia straniera, pur regolarmente cittadini americani. E mi sottolineava come questa cosa facesse di San Francisco una città più sicura di Milano per certi aspetti. Ne parlo con Alì che mi dice esattamente la stessa cosa. “L’integrazione, la collaborazione con persone provenienti da tutto il mondo, oltre ad una questione di civiltà, è anche un vantaggio per quanto riguarda la stessa sicurezza.”

Adesso Alì in Belgio continua la sua attività di consulenza per tutto ciò che ha a che fare con l’immigrazione grazie anche alla collaborazione con diversi studi legali sparsi in ogni dove.

 

A cura di Geraldine Meyer